L'Attacco di Pearl Harbor
Secondo l'originale piano di guerra giapponese, la complessa avanzata verso sud lungo più direttrici che avrebbe consentito alle forze di spedizione di occupare Thailandia, Malesia, Filippine e Indie olandesi sarebbe dovuto essere appoggiata dall'intera marina da guerra imperiale.
La Pacific Fleet statunitense, che si prevedeva si sarebbe affrettata a raggiungere il Mare delle Filippine per soccorrere i paesi attaccati, sarebbe stata molestata dagli attacchi sferrati da aerei e sommergibili di base nelle isole Marshall e Caroline, prima di essere impegnata in battaglia dalla superiore flotta giapponese.
All'inizio del 1941, il comandante in capo della flotta giapponese, ammiraglio Isoroku Yamamoto, aveva posato uno sguardo critico su questo piano. A differenza della fazione militare guidata dal generale Tojo, Yamamoto si avvide chiaramente che sebbene, l'apparato bellico giapponese fosse in grado di riportare un incontrastato successo nelle fasi iniziali, l'immenso potenziale industriale degli Stati Uniti avrebbe ben presto posto fine alle vittorie giapponesi. Quando quel momento fosse venuto, sarebbe stato possibile negoziare una pace di compromesso soltanto se il Giappone si fosse già così saldamente insediato nell'Asia sud orientale che l'impresa di sloggiarlo apparisse irrealizzabile agli occidentali. A tal fine, era necessario ottenere un certo periodo di tempo e Yamamoto voleva assicurarselo distruggendo la Pacific Fleet.
Resosi conto da molto tempo del ruolo decisivo delle portaerei nella strategia navale, Il contrammiraglio Takijiro Onishi, capo di stato maggiore dell'11ª, squadra aerea di base a terra, ricevette l'ordine di esaminare la possibilità di un attacco aereo su Pearl Harbor basato sull'impiego di portaerei. Onishi chiamò presso di sé il generale di brigata aerea Minoru Genda. Entro la fine di maggio del 1941 Genda aveva ultimato uno studio dal quale risultava che l'operazione aveva ottime probabilità di successo purché vi venissero impegnate tutte e sei le portaerei della flotta e sui preparativi si riuscisse a mantenere la più assoluta segretezza.
Sottoposto al capo di stato maggiore generale della marina, ammiraglio Nagano, il piano venne respinto: le portaerei erano necessarie per l'avanzata verso sud e un'operazione che dipendeva totalmente dalla sorpresa alla fine di una traversata oceanica di 3.400 miglia era troppo rischioso. Comunque, Yamamoto diede ordine ai gruppi delle sue portaerei di avviare uno speciale programma di addestramento basato sul siluramento, sul bombardamento in picchiata e sul bombardamento da alta quota di bersagli situati in specchi d'acqua ristretti come la baia di Kagoshima, nella parte meridionale dell'isola Kyushu. Eccettuato un ristrettissimo gruppo di ufficiali di stato maggiore impegnati con Genda nella messa a punto del piano dettagliato, nessuno fu messo al corrente dello scopo di queste esercitazioni.
Ai tecnici della principale base navale di Yokosuka fu affidato il compito di adattare i siluri aerei in modo che, pur venendo sganciati da una quota superiore a quella normale, essi entrassero in acqua in posizione orizzontale, così da non scendere troppo in profondità all'inizio della loro corsa. Entro settembre, siluri muniti di speciali alette stabilizzatrici che ne avrebbero consentito l'efficace impiego in uno specchio d'acqua ristretto e poco profondo come quello di Pearl Harbor erano stati sperimentati con successo, e la loro produzione in serie veniva già avviata affinché tutto fosse pronto per un giorno fissato verso la metà di novembre.
Il 16 ottobre cadde il governo presieduto da Konoye, il cui posto fu preso dal generale Tojo. Washington si affrettò a inviare all'ammiraglio Kimmel e al generale Short rispettivamente a capo del comando navale e terrestre delle Hawaii segnalazioni di allarme che denunciavano l'esistenza di una situazione grave, ma che con ogni probabilità, la prima mossa giapponese sarebbe stata rappresentata da un attacco contro i territori marittimi della Russia. Il fatto che già in luglio la marina da guerra giapponese avesse infine prevalso nel lungo dibattito con l'esercito in merito ai piani di guerra, e che quindi i giapponesi avessero deciso un'offensiva a sud, era sfuggito al servizio informazioni degli Stati Uniti. Secondo l'interpretazione del generale Short, questa valutazione riduceva sensibilmente la probabilità di un attacco contro territori sotto la sovranità degli Stati Uniti. La cosa che più lo preoccupava era la presenza nelle Hawaii di una numerosa comunità giapponese, e quindi la necessità di prendere misure adeguate per prevenire attività di sabotaggio.
La possibilità di un attacco aereo se e quando la guerra fosse scoppiata era stata considerata soltanto in modo superficiale, ed esercitazioni con unità della marina erano state svolte solo in modo saltuario. A partire da agosto avevano cominciato ad arrivare alcuni impianti radar mobili, piuttosto primitivi, che il comando locale aveva sistemato in diversi punti lungo la costa di Oahu. Gli impianti soffrivano di vari disturbi e di frequenti guasti. Le comunicazioni tra di essi e un provvisorio centro di controllo, nonché tra il centro di controllo e i diversi comandi, erano assicurate dalla rete telefonica ordinaria. Sia gli operatori degli impianti radar sia quelli del centro di controllo erano poco addestrati.
Agli occhi dei comandanti della marina americana, la nuova situazione appariva invece assai poco tranquillizzante. Anche se un attacco giapponese contro la Russia veniva considerato come l'eventualità più probabile, la possibilità di un attacco contro gli Stati Uniti o la Gran Bretagna non veniva affatto scartata, e la Pacific Fleet ricevette l'ordine di prendere opportune precauzioni.
In caso di azioni ostili, da parte dei giapponesi contro la navigazione mercantile statunitense tutti i mercantili che si fossero trovati nel Pacifico occidentale avrebbero dovuto dirigere immediatamente verso porti amici. Avendo ricevuto disposizione di adottare misure precauzionali per la sicurezza dei campi di aviazione di Wake e Midway (gli scali aerei intermedi sulla rotta delle Filippine), Kimmel inviò su ambedue le isole rinforzi di marines e scorte di munizioni e di altri materiali; inoltre vi dislocò altri aerei da ricognizione. A quanto pare nessuno pensò alla possibilità di un attacco aereo contro Pearl Harbor o le sue difese.
In questo stesso periodo a bordo della portaerei giapponese Akagi, nave ammiraglia del viceammiraglio Chuichi Nagumo, comandante della forza d'assalto di portaerei celeri, sotto il vincolo del segreto, Yamamoto diede ai piloti la notizia che obiettivo della loro missione sarebbe stata la base navale americana dislocata in nella baia di Pearl Harbor. L'attività di addestramento venne poi ripresa con intensità ancora maggiori. Il 1º novembre il comandante in capo impartì l'ordine esecutivo fissando per la domenica 7 dicembre (data delle Hawaii) il giorno dell'attacco. Due giorni dopo l'ammiraglio Nagano fu infine convinto a dare il proprio consenso.
Tra il 10 e il 18 novembre, da sole o a Coppie, le unità della forza d'assalto di Nagurno sei portaerei, due corazzate, tre inecrociatori, nove cacciatorpediniere e otto petroliere si allontanarono dai loro ancoraggi e, diressero verso il punto d'incontro nella deserta baia di Tankan, a Etorofu, la più grande delle isole Curili. Tutte le unità ricevettero l'ordine di mantenere il più rigoroso silenzio radio fin dal momento della partenza, mentre a Kure, nel Mare interno, il resto della squadra era impegnato a trasmettere, a uso e consumo del servizio intercettazione americano, un ininterrotto flusso di messaggi radio. In quegli stessi giorni, e con la stessa segretezza, sedici sommergibili della pesero il mare dirigendo verso est, in pieno Pacifico. Cinque di essi trasportavano sommergibili tascabili che, con due uomini di equipaggio, avrebbero dovuto penetrare a Pearl Harbor simultaneamente all'attacco aereo. Gli altri, oltre a svolgere compiti di scorta alla formazione di portaerei, avrebbero dovuto cogliere l'occasione favorevole per attaccare qualsiasi unità americana che fosse riuscita a fuggire in mare aperto.
Alle Hawaii e a Washington non mancavano segni indicanti l'imminenza di qualche operazione giapponese. Il 1º novembre i centri adibiti alla decriptazione dei messaggi radio, avevano riferito che tutti i nominativi di chiamata delle unità navali giapponesi erano stati cambiati. In se, questo non era una notizia eccezionale: era normale che di tanto in tanto i nominativi di chiamata venissero mutati. Ma l'ulteriore cambiamento che si verificò solo un mese più tardi, il 1 dicembre, non poteva essere che un segnale che i giapponesi stavano preparandosi ad agire.
Nel corso del mese di novembre il centro per l'analisi dei messaggi radio era riuscito a identificare di nuovo un certo numero di unità, ma aveva perso ogni contatto con le portaerei giapponesi. Basandosi sul fatto che le ipotesi formulate in occasioni analoghe si erano dimostrate esatte, gli americani giunsero alla conclusione che esse dovevano trovarsi nelle acque territoriali giapponesi del Mare interno.
Dall'altra fonte di informazioni provenienti dai messaggi radio, il codice diplomatico " Purple " (Porpora), giungevano rapporti assai diversi. Rapporti che, se esaminati unitamente ai risultati ottenuti dalle altre unità adibite alla decriptazione dei messaggi radio, avrebbero potuto essere valutati in tutta la loro importanza.
Dal 5 novembre in poi, messaggi trasmessi agli inviati giapponesi a Washington li avverti che il 25 novembre era la scadenza improrogabile per un esito positivo dei loro negoziati. Il 22, Tokyo spostò la scadenza al 29; dopo di che, qualcosa comincerà a succedere automaticamente. Intanto ciascuna delle due parti sottopose all'altra le proprie condizioni definitive per un accordo, i giapponesi il 20, gli americani il 26; poiché evidentemente né l'uno né l'altro dei due schemi di condizioni era accettabile per ambedue le parti, le trattative giunsero a un punto morto.
Nell'ultima settimana di novembre, i negoziati erano falliti, ed era chiaro che la guerra era imminente. Ma poiché gli americani avevano assunto di fronte a se stessi l'impegno di non essere i primi ad aprire il fuoco, la scelta del tempo e del luogo era nelle mani dei giapponesi. Gli americani potevano solo sperare che le fonti di informazione segrete riuscissero a preavvisarli con un certo anticipo. Un costante flusso di informazioni continuava a pervenire al governo americano e ai comandanti in capo delle forze armate; e queste informazioni lasciavano chiaramente capire che i giapponesi stavano preparando una spedizione verso sud.
Il 24 novembre i comandanti navali americani all'estero ricevettero il seguente avvertimento: " è possibile una mossa aggressiva basata sulla sorpresa in qualsiasi direzione, comprese le Filippine e Guam ". Tre giorni dopo un messaggio inviato dal capo delle operazioni navali elencava i possibili obiettivi giapponesi: " le Filippine, la penisola di Thai o di Kra o forse il Borneo. ". Il messaggio non menzionava le isole Hawaii e neppure Wake e Midway. Il giorno prima dell'invio di questo messaggio, le ancore delle unità dell'ammiraglio Nagumo erano uscite, dalle acque della baia di Tankan, per scomparire nel mare settentrionale, puntando verso est lungo il quarantatreesimo parallelo, lontano da tutte le normali rotte di navigazione.
Circa 3.000 miglia più a sudest, inconsapevole di quanto stava per accadere, vi era Pearl Harbor. I soli risultati visibili del preavviso di guerra diramato dal capo delle operazioni navali, erano costituiti da un certo movimento di soldati e di autocarri dell'esercito: le truppe del generale Short si stavano portando ai propri posti contro la possibilità di sabotaggi da parte della popolazione locale giapponese. Sulle unità navali, dove da qualche tempo era entrato in vigore un servizio ridotto di preallarme a norma del quale alcuni cannoni contraerei erano sempre pronti a entrare in azione, non venne presa alcuna ulteriore misura precauzionale. Le portaerei Enterprise e Lexington, erano in navigazione per trasportare aerei da caccia Marine a Wake e Midway. Tutte le altre unità della squadra restavano normalmente in mare rientrando a Pearl Harbor per il fine settimana.
Nei i primi giorni di dicembre il servizio di decriptazione riportò che tutti gli uffici diplomatici e consolari giapponesi avevano ricevuto l'ordine di distruggere i loro codici e cifrari, nonché i documenti riservati. Pur costituendo un'ulteriore segno dell'imminenza della guerra, ciò non indicava Pearl Harbor come un possibile obiettivo giapponese. Una serie di rapporti intercettati, provenienti dal console giapponese a Honolulu e relativi all'ancoraggio di unità della Pacifie Fleet, aviebbe potuto, in effetti, costituire un sintomo delle intenzioni giapponesi; alla cosa non venne però dato alcun peso particolare in quanto analoghi rapporti venivano regolarmente trasmessi dai consoli giapponesi operanti in altre località. Non venne ordinato alcun volo di esplorazione a lungo raggio, né venne apportato alcun cambiamento al programma di addestramento della flotta, secondo il quale essa sarebbe rientrata in porto per il fine settimana.
Ma la ragione che indusse gli americani a non prendere in considerazione la possibilità di un attacco contro Pearl Harbor era l'esistenza di chiari segni che, più a sud, i giapponesi stavano per lanciare una colossale operazione anfibia. Il 6 dicembre alcuni aerei da ricognizione, inglesi e americani, avevano segnalato l'avvistamento di convogli giapponesi carichi di truppe in navigazione nel golfo del Siam, e per i comandantí americani era semplicemente impensabile che i giapponesi avessero le risorse di organizzare in un altro settore un'operazione simultanea basata sull'impiego di tutte le loro portaerei.
Alcune migliaia di miglia a nordovest delle Hawaii, intanto, la formazione delle portaerei giapponesi era riuscita ad avanzare non vista, aiutata in questo dalle cattive condizioni atmosferiche le quali, d'altra parte, accrebbero le preoccupazioni di Nagumo, che doveva poter contare almeno su di un breve periodo di bel tempo per poter effettuare le operazioni di rifornimento dalle navi appoggio. Poi, il 1º dicembre, giunse il tanto atteso segnale di conferma dell'operazione "Niitaka Yama Nobore" (scalare il monte Niitaka). Il 2 dicembre, le condizioni atmosferiche migliorarono leggermente, i serbatoi delle navi da guerra furono riempiti, e la sera seguente la formazione diresse verso sudest, facendo rotta verso un punto situato 500 miglia a nord di Pearl Harbor, dove i giapponesi speravano di arrivare entro la sera del 6. Ormai la decisione finale di lanciare l'attacco era nelle mani di Nagumo, il quale avrebbe dovuto basarsi sui messaggi inviati all'ultimo minuto dall'agente giapponese a Honolulu e relativi alla presenza nel porto della Pacific Fleet.
Nel frattempo, gli americani stavano intercettando e decriptando i messaggi in codice " Purple " indicanti la decisione giapponese di respingere l'ultimatum americano del 6 novembre. Il testo era una prolissa esposizione delle tesi giapponesi trasmessa in 14 parti, soltanto l'ultima delle quali conteneva qualcosa di nuovo la decisione di rompere formalmente le trattative. Quest'ultima parte giunse in mano americana entro le ore 3 (ora di Washington) della mattina del 7 dicembre.
Nello stesso momento (sera del 6, ora delle Hawaii) a bordo delle portaerei della formazione di Nagumo stavano svolgendosi cerimonie di consacrazione all'imminente battaglia e sul maestro dell'Akagi venne issata una storica bandiera usata trentasei anni prima: l'insegna dell'ammiraglio Togo nella battaglia di Tsushima, dopodiché la formazione accostò verso sud, dirigendo a tutta velocità verso la posizione prescelta per il decollo degli aerei e che aviebbe dovuto essere raggiunta entro l'alba del giorno seguente.
Mentre le navi giapponesi avanzavano, a Washington, e più precisamente alla stazione radio di Bainbridge Island, un altro importantissimo messaggio in codice " Purple " veniva intercettato, decriptato e tradotto. Esso dava disposizioni all'ambascíatore giapponese, affinché presentasse al segretario di stato americano la comunicazione ufficiale della rottura dei negoziati esattamente alle 13 del 7 dicembre (ora di Wahíngton). Tradotto entro le ore 6, fu solo alle 9.15 che esso pervenne all'ammíraglio Stark, capo delle operazioni navali, e dovettero poi passare altri 35 minuti prima che il segretario di stato lo vedesse. A entrambi venne fatto rilevare che le ore 13 avrebbero pressappoco coinciso con il sorgere del sole a Honolulu. Eppure trascorsero altri 70 minuti di inattività prima che il generale Marshall, capo di stato maggiore generale degli Stati Uniti, vedesse il messaggio. Egli propose immediatamente a Stark di trasmettere uno speciale avviso di guerra a tutte le forze armate. Poiché Stark non approvava l'idea, Marshall preparò un suo messaggio personale ai comandanti dell'esercito. Il messaggio venne consegnato per la traduzione in cifra e l'invio alle ore 12. Ma molto prima che esso raggiungesse Pearl Harbor le esplosioni delle bombe dirompenti e delle testate dei siluri lo avevano reso superfluo.
In quel momento (6.30, ora delle Hawaii) la prima ondata degli aerei di Nagumo era già stata lanciata: 50 bombardieri muniti di una bomba da 800 chili, capace di perforare la più robusta corazza, altri 70 muniti di siluro, 51 bombardieri in picchiata muniti di una bomba da 250 chili e 43 caccia Zero con il compito di scortare i bombardieri e sferrare attacchi a volo radente.
Non senza dubbi Nagumo aveva dato l'ordine definitivo, perché il rapporto dell'agente giapponese in merito alle unità che si trovavano a Pearl Harbor non faceva alcuna menzione delle portaerei statunitensi Lexington e Enterprise le quali, in quel momento erano in navigazione verso le isole Wake e Midway. L'allettante preda costituita dalle otto imponenti corazzate della Pacific Fleet e dai numerosi incrociatori e cacciatorpediniere era comunque stata sufficiente a farlo decidere.
Al largo di Pearl Harbor stavano già svolgendosi i primi atti di guerra. Il dragamine statunitense Condor, in normale missione di dragaggio, segnalò al cacciatorpediniere Ward, in pattugliamento notturno, di aver avvistato un periscopio; ma nessun segnale di allarme venne trasmesso alla stazione di controllo dei porto. Dopo essere stato inutilmente ricercato per più di due ore dal Ward, il periscopio fu nuovamente avvistato da un idrovolante che ne contrassegnò la posizione con bombe fumogene; il cacciatorpediniere poté così entrare in contatto con il nemico: si trattava di un sommergibile tascabile che alle ore 6.45, con bombe di profondità e alcune cannonate, venne affondato. Un messaggio che riferiva l'incontro con il sommergibile giapponese fu ricevuto alle ore 7.12 e, anche se con un certo ritardo, esso venne infine recapitato all'ammiraglio Kimmel.
Alle ore 7.50, mentre Kimmel stava raggiungendo in tutta fretta il suo ufficio, un'esplosione sull'isola Ford, la base dell'aviazione navale che si trovava nel mezzo della rada, costitui la prima allarmante indícazione che Pearl Harbor stava subendo un attacco aereo.
Dalle ore 6.15 la prima ondata di aerei giapponesi era in volo verso sud, guidata dal comandante Mitsuo Fuchida, che si trovava a bordo del bombardiere di testa. Un paio di operatori radar in addestramento presso la stazione mobile di Opana, i quali si stavano esercitando all'uso dell'impianto radar nonostante fossero già passare le ore 7 (normale ora di chiusura), videro gli aerei apparire sullo schermo a una distanza di 220 km e ne calcolarono, proprio per curiosità, la direzione di avvicinamento; il centro di informazione, al quale avevano segnalato l'avvistamento, disse loro che il contatto radar poteva senz'altro essere ignorato, in quanto con ogni probabilità si trattava di una squadriglia di " fortezze volanti " che doveva arrivare dal continente.
Fuchida guidò il suo sciame di aerei lungo la costa occidentale di Oahu, sotto gli sguardi pigramente curiosi dei molti familiari di militari e civili che vivevano lungo la spiaggia, i quali li scambiarono per i reparti aerei della Lexington e dell'Enterprise. Alle ore 7.50 Fuchida poté finalmente vedere, al di là della piana centrale dell'isola, Pearl Harbor, attraverso il binocolo egli poté contare le sette grandi unità da guerra statunitensi, ormeggiate in coppia lungo il lato orientale dell'isola Ford. Il nemico era stato colto completamente di sorpresa: egli diede l'ordine di attaccare.
Dopo aver ripetuto infinite volte quella manovra nel corso delle esercitazioni, ogni pilota giapponese sapeva esattamente che cosa doveva fare. Mentre i gruppi di bombardieri in picchiata, si dividevano in squadriglie per attaccare simultaneamente i diversi campi di aviazione dell'esercito, della marina e dei niarines, i bombardieri orizzontali si disposero sulle loro predeterminate rotte di avvicinamento e gli aerosiluranti iniziarono la lunga picchiata che doveva portaili nella posizione di sgancio al traverso delle corazzate. Pochi minuti prima delle 8, le bombe cominciarono a esplodere tra gli aerei schierati sui vari campi di aviazione. Nello stesso tempo, gli uomini del turno di guardia che a bordo delle corazzate stavano preparandosi per la cerimonia dell'alzabandiera delle 8 videro gli aerosilurantí tuffarsi a bassa quota per sganciare i loro siluri. Non un solo cannone americano aveva ancora aperto il fuoco, non un solo caccia americano era ancora decollato.
La totale sorpresa conseguita dagli attaccanti sui campi di aviazione, dove le esplosioni delle bombe furono seguite dal lacerante crepitio delle mitragliatrici dei caccia Zero in picchiata, eliminò ogni possibilità di un'efficace difesa da parte dei caccia americani. Nella rada cinque delle sette corazzate, West Virginia, Arizona, Nevada, Oktahoma e Califoinia furono squarciate dai siluri già nei primi minuti dell'attacco; solo la Maryland e la Tennessee, che si trovavano all'ancora in punti più riparati, e l'ammiraglia Pennsylvania che si trovava in bacino di carenaggio, non furono danneggiate dai siluri. Altre unità silurate furopo la vecchia corazzata bersaglio Utah e gli incrociatori leggeri Raleigh e Helena.
Comunque, anche se ai violenti sobbalzi provocati dalle esplosioni subacquee si aggiunse con crescente intensità l'urlo dei bombardieri in picchiata e i sibili e le detonazioni delle bombe lanciate da questi e dai bombardieri che volavano ad alta quota, quasi tutti gli equipaggi americani entrarono in azione, abbattendo numerosi aerei attaccanti. Le squadre addette al controllo dei danni si impegnarono al massimo per ridurre le conseguenze dell'allagamento, ripristinando gli apparati elettrici, le condotte dell'acqua e le reti di comunicazione, lottando contro gli incendi, ecc. Una corazzata, la Nevada, riusci persino a mettersi in moto e a dirigere verso l'ingresso della rada. Nel frattempo, ben al di sopra del fumo e della confusione, in un primo tempo increduli di fronte alla totale assenza di caccia nemici, i bombardieri in quota di Fuchida stavano scegliendo i loro bersagli puntando con precisione. Una bomba perforò i 13 cm della corazza di una torretta della Tennessee per esplodere poi nel suo interno; un'altra, dopo aver attraversato numerosi ponti, esplose nei depositi di prua dell'Arizona, che saltò in aria.Tanto la Maryland che la California furono colpite, subendo gravissimi danni.
Quando, alle ore 8.25, la prima ondata di aerei giapponesi si ritirò, quasi tutti gli aeroplani statunitensi dislocati nelle basi aeree erano stati danneggiati o distrutti, la West Virginia, era in preda alle fiamme e stava affondando, la Arizona era affondata con più di 1.000 uomini intrappolati sotto coperta. La Oklahoma si era capovolta, adagiandosi sul fondo con la chiglia fuori dall'acqua; la Tennessee, con una torretta distrutta da una bomba perforante, era in preda alle fiamme; la California, infine, aveva subito danni tali che, nonostante il prodigarsi del suo equipaggio, fini con l'affondare. Tutto ciò che si poteva scorgere della Utah era la sua chiglia rovesciata. Il Raleigh, sprofondato nell'acqua a seguito dell'allagamento di alcuni compartimenti e del controallagamento di altri, era mantenuto diritto soltanto dai suoi cavi di ormeggio.
Mentre tutto ciò stava accadendo, un sommergibile tascabile giapponese oltre a quello affondato dal Ward era riuscito a penetrare nella rada, approfittando del fatto che la barriera che difendeva l'entrata al porto era stata lasciata aperta dopo l'ingresso di due dragamine alle ore 4.58. Durante una pausa negli attacchi aerei, questo sommergibile fu avvistato proprio mentre stava lanciando un siluro contro la naveappoggio per idrovolanti Curtiss. Il siluro mancò il bersaglio e andò ad esplodere, senza provocare danni, contro la riva; la stessa sorte toccò a un secondo siluro. Il sommergibile fu quindi attaccato dal cacciatorpediniere Monaghan che lo affondò con bombe di profondità. Degli altri tre sommergibili tascabili lanciati, due andarono persi senza lasciare traccia; il terzo, dopo essere incappato in una secca e aver subito il fuoco del cacciatorpediniere Helm, si incagliò definitivamente e i suoi uomini di equipaggio furono fatti prigionieri. I sommergibili più grandi e le altre 11 grosse unità della forza di spedizione avanzata non ottennero alcun risultato.
La seconda ondata di aerei giapponesi 54 bombardieri, 80 bombardieri in picchiata e 36 caccia guidati dal comandante Shimazaki della portaerei Zuikaku aveva preso il volo un'ora dopo la prima. Essa fu accolta da una difesa molto più efficace, e ottenne pertanto risultati molto minori. Poiché nella breve tregua tra i due attacchi i cannoni contraerei statunitensi avevano ricevuto adeguate scorte di munizioni e i serventi ai pezzi erano stati riorganizzati e aumentati di numero, numerosi bombardieri in picchiata giapponesi furono abbattuti. Comunque, la seconda ondata riusci a danneggiare la Pennsy1vania, a distruggere completamente due cacciatorpediniere che si trovavano con essa in bacino di carenaggio, a far saltare in aria un altro cacciatorpediniere nel bacino di carenaggio galleggiante e a costringere la Nevada che stava cercando di raggiungere l'ingresso della rada attraverso le dense nubi di fumo nero che si levavano dalle navi in fiamme a incagliarsi. Nel frattempo i bombardieri in quota, operando indisturbati come in una esercitazione di tiro, arrecarono ulteriori danni alle navi già malconce.
Alle ore 10 tutto cessò. Con l'irrisoria perdita di soli 9 caccia, 15 bombardieri in picchiata e 5 aerosiluranti sui 384 aerei impiegati nell'attacco, la marina da guerra giapponese era riuscita a mettere fuori combattimento l'intera forza da battaglia della Pacifie Fleet.
Al preoccupato Nagumo il successo sembrava così miracolosamente completo, e il prezzo pagato così esiguo, che quando Fuchida e altri comandanti di gruppo lo sollecitarono a organizzare un secondo attacco, egli ritenne che ciò avrebbe significato sfidare la fortuna. Ignorando i loro consigli, egli ordinò alla sua formazione di allontanarsi in direzione nordovest per raggiungere le altre portaerei, e di mettersi poi in rotta verso il Giappone.
Si trattò di un grave errore, ma Nagumo, che non era un aviatore, a quel tempo non era il solo a non rendersi conto del fatto che il massiccio armamento, in termini di cannoni, delle maestose corazzate non costituiva più il mezzo più efficace per assicurarsi il controllo dei mari. Non soltanto la Enterprise stava ritornando a Pearl Harbor dopo aver ultimato la sua missione all'isola Wake e ben difficilmente avrebbe potuto sopravvivere a un attacco aereo in massa, ma le attrezzature di riparazione di Pearl Ilarbor e i suoi grandi depositi di petrolio, con i serbatoi ricolmi di carburante, erano ancora intatti e ormai virtualmente indifesi. Senza di essi la base navale sarebbe stata inutilizzabile per molti mesi, costringendo i resti della Pacific Fleet a ritirarsi verso la loro base più vicina sulla costa occidentale dell'America, completamente al di fuori dell'imminente zona di operazioni nel Pacifico sudorientale.
In tal modo, l'audace e ben preparato attacco di Yamamoto, non raccolse tutti quei frutti che avrebbe potuto raccogliere anche se indubbiamente, il colpo che esso aveva sferrato alla marina da guerra degli Stati Uniti era stato molto duro.